“È
bello soffrire una vita perché altri ne godano per l’eternità”
Nel piano inferiore del
cimitero di San Miniato, sulla destra, tra le sepolture degli inizi
Anni Sessanta, sulla tomba di Raffaello Fossi si legge questa
iscrizione che riassume il principale messaggio della sua breve ed
intensa vita artistica.
L’8 gennaio del ‘62 segna
per Rafo la fine di speranze e di sogni che erano riusciti a dare un
senso alla sua sofferenza fisica attraverso la musica, la poesia, la
scultura e soprattutto la pittura, dando spazio ad un suo percorso
artistico interamente finalizzato all’amore per la vita ed alla
gioia stessa del vivere.
La morte quasi improvvisa
giunta a 33 anni alla vigilia del suo tanto agognato viaggio a
Parigi, dove pensava di prendere contatto con le avanguardie
artistiche presenti allora nella capitale francese, interrompeva
bruscamente un percorso che, dopo tante difficoltà e delusioni,
sembrava essere arrivato ad un successo che lo stava consacrando
anche agli occhi di un pubblico più vasto accanto agli amici
Loffredo, Tirinnanzi, Venturi, Gambassi, Bergomi, Pini, Midollini,
Antonio e Xavier Bueno.
Il percorso artistico di
Raffaello Fossi era iniziato nel Castello di Signa negli anni a
ridosso del secondo dopoguerra, in un momento ricco degli stimoli e
delle forze propulsive tipiche della ricostruzione.
La presenza a Signa della
“bottega” di un artista del livello di Giuseppe Santelli e di una
notevole attività artigianale legata alla produzione di ceramica e
di terrecotte artistiche contribuì a mostrare a molti giovani
signesi e lastrigiani la bellezza di misurarsi con i temi dell’arte
favorendo la nascita di pittori e scultori capaci di lasciare una
profonda traccia nella storia artistica di questo territorio come
Moschi, Catarzi, Bertelli, Borgini ed i fratelli Cartei.
Per Rafo alle prime esperienze
pittoriche, sviluppatesi nella scuola di Giuseppe Santelli, che da
subito ne aveva individuato il talento naturale, seguirono quattro
anni di studio presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze sotto la
direzione del professor Giorgio Settala seguiti a loro volta da un
periodo di perfezionamento nella Scuola del Nudo.
Una forte preparazione su ogni
tecnica pittorica si accompagnerà a continui tentativi ed
esperimenti che porteranno Rafo ad avventurarsi in ogni ambito
artistico mantenendo al tempo stesso una forte tensione culturale
caratterizzata sia dalla lettura che dallo studio di filosofi e
scrittori non solo contemporanei.
La sua partecipazione attiva
all’interno del dibattito culturale ed artistico fiorentino
contribuirà a far si che ogni sua opera fosse accompagnata da una
sua vivace filosofia di fondo sorretta dalla certezza del ruolo
dell’arte nel progresso dell’umanità.
Fra le sue citazioni più
ricorrenti la definizione di Prassitele sull’arte.
“È
nemica della guerra perché è un dono dell’uomo all’uomo.”
I problemi fisici da cui era
affetto che da un lato ne limitavano i movimenti, dall’altro lo
caricavano di rabbia, di passione, di voglia di vivere e di fare.
Proprio in un momento di
seminfermità, relegato nella sua camera di via dell’orologio,
iniziò le sue prime sperimentazioni pittoriche lungo percorsi
diversi e spesso contraddittori che gli offrirono gli strumenti
tecnici fondamentali per lo sviluppo di un proprio stile sempre più
libero dagli schemi accademici che troverà uno sbocco fondamentale
nell’attenzione verso Rosai e la sua opera.
Proprio Ottone Rosai avrebbe
suggerito l’uso del nome d’arte RAFO utilizzando le due lettere
iniziali del nome e del cognome: dal 1957 quasi tutta la produzione
sarebbe stata siglata con quello pseudonimo.
Lo stesso Rosai in una lettera
del 5 aprile 1957 incoraggiava l’amico pittore a credere nella sua
opera ed a continuare nei propri originali percorsi d’arte.
“Caro
RAFO, ho visto e guardato con interesse i tuoi disegni. Mi è
sembrato scorgervi un temperamento e una tua autenticità d’artista.
Lavora e credi nella tua verità.”
Con il 1957 inizia un periodo
segnato da importanti mostre con le quali si sviluppa un rapporto
ancora più intenso con gli amici pittori e con critici d’arte
capaci di cogliere le novità di un messaggio pittorico carico di
contenuti originali.
Il registro delle firme di
queste sue mostre inizia con una breve pagina dattiloscritta, datata
marzo 1957, nella quale RAFO prova a spiegare il significato delle
sue scelte artistiche e della sua volontà di offrirle alla visione
ed alla comprensione degli altri.
“Mi
sembra opportuno dire il perché di questo mio primo contatto con il
pubblico e la critica, di questo mio mostrare per immagini, ciò che è
in me, ciò che sente la mia sensibilità artistica.
Ho
lavorato più di dieci anni per prepararmi, con ricerche e studi che
di giorno in giorno crescevano d’interesse e d’entusiasmo
maggiore quando altri pittori vedendo i miei disegni, le mie pitture,
mi incoraggiavano a continuare.
Ho
acquistato con l’esperienza, lentamente, quel potenziale che ci fa
operare via via che altri artisti mi davano la mano consapevoli della
mia serietà, del mio impegno che si tramuta in fede.
E
così che necessariamente continuerò a dipingere per tutta la vita
fino a quando potrò donare, (…)
Questo
mio ingresso nella vita artistica è per me come per il neonato un
battesimo, una celebrazione d’un rito da lungo tempo aspettato.
(…)”
La definizione dell’arte
intesa come dono è un motivo di fondo del suo pensiero che si può
riscontrare in una delle frasi che lo accompagnavano e che scriveva
sui muri dei suoi studi, a Signa in via dell’orologio e a Firenze
in via XXVII aprile; questa era ripresa da una citazione di
Modigliani e recitava:
“La
vita è un dono di coloro che sanno e che hanno a coloro che non
sanno e che non hanno.”
Il
primo giugno del 1957 fu inaugurata la sua prima esposizione presso
la Galleria “Vigna Nuova” di Firenze, cui seguirono in
successione, oltre a ripetute partecipazioni a concorsi e a
collettive, altre mostre personali che ebbero, come si può rilevare
da articoli di stampa, grandi successi di critica e di pubblico.
Nell’ottobre del 1957 si tenne una nuova personale presso la
Biblioteca Comunale di Empoli mentre il 1958 vide i successi della
Galleria “Falsetti” di Prato e, di nuovo, della Galleria “Vigna
Nuova” di Firenze.
Nella
presentazione di una sua mostra il tentativo di definire lo stile e
le finalità della propria pittura:
“…È
un discorso iniziato nel 1948, parlo s’intende di linguaggio
pittorico. All'inizio del 1957 arrivai al così detto Astrattismo, al
quadro non oggettivo e proseguendo non mi restava che la tela bianca.
Da questa interessante scoperta, il mio ritorno a riguardare
l'oggetto, la natura. Tornare con tutte l'esperienze del secolo XX
allo spirito dell'uomo primitivo in una nuova sincerità che
comunicasse a tutti gli uomini universalmente quello che il mio cuore
sentiva, quello che l'uomo in me voleva dire, donare quelle visioni
che la critica chiama arte con l'A maiuscola. Comprendere la natura
significa afferrare il cuore dell'Universo e farlo suo, svelare il
segreto del tempo che muta le cose, oltrepassare gli oggetti
nell'apparenza e vederne l'intima realtà. Perciò prima dei problemi
umani e sociali studiare, la natura è stato il compito che mi sono
prefisso e che in pittura continuo a svolgere. Vedere una foglia e
riuscire a dipingerla coll'essenziale di linee e colori è come
dipingere il tutto perché in essa questi si racchiude. Semplicità
di linee, pochi colori, temi eterni come il giorno e la notte, ecco
questa mia pittura in una materia ordinata armoniosamente; attimi del
tempo che restano eterni e che la natura ripropone innovandosi.
Parlare
del lato tecnico, economico, sociale è parlare dell’uomo perché
quelle tele, quelle e non altre, è chiedere la mia vicenda umana.
Chiedere la ragione delle privazioni, dei tormenti, dell’intenso
lavoro e studio è chiedere il perché della volontà che lotta
incessante ai richiami facili per una vita comoda. La continua
rinuncia al companatico, i periodi di solitudine, i rimproveri, le
risate, gli sberleffi, è chiedere la mia vita personale ed allora
troppe cose bisognerebbe dicessi ed alla fine del lungo discorso vi
avrei stancato, rattristito. …”
Nel luglio del 1959 la
Galleria “Spinetti” di Firenze ospiterà una personale che,
secondo Umberto Baldini, segnerà la piena maturazione artistica di
RAFO. In un suo articolo, pubblicato sulla Nazione del luglio 1959,
Baldini scriverà:
“Una
notevole serie di dipinti, frutto dell’attività dell’ultimo
triennio, presenta il pittore Rafo alla Galleria Spinetti di Chiasso
degli Armagnati. La rassegna acquista valore ed interesse soprattutto
perché dà la possibilità di individuare con chiarezza la ricerca
attuale dell’artista, dopo le esperienze soggettivistiche su base
astrattista. Tale ricerca sembra anzi avere trovato, proprio nelle
più recenti opere, una buona predella di lancio, un ottimo punto di
partenza per una prospettiva assolutamente nuova in lui e ugualmente
interessante. La grafia schematica e geometrica nella quale forse
anche un po’ cerebralmente aveva cercato per ricostruire la forma e
l’oggetto, lo sta infatti portando verso una scioltezza di
linguaggio felice ed immediato, sensibile e vibrante. Certi suoi
paesaggi, certi suoi appunti di colori e di spazio, hanno una
coesione ed un ritmo veramente notevoli e hanno già – e non è
poco – uno stile, una personalità, una qualità inconfondibile.”
Nelle parole di Baldini la
consapevolezza del compimento di un percorso iniziatico con
l’attraversamento di molti stili e l’arrivo a quella “verità”
indicata da Rosai pochi anni prima.
La mostra alla Galleria “Il
Bulino” di Ferrara, nell’autunno del 1960, costituirà un altro
importante passaggio nella direzione di una presa di coscienza sempre
più forte nei confronti dell’approdo ad un più definito stile
personale che, valorizzando ogni momento ed ogni esperienza provata
nei vari ambiti seguiti dal pittore andava segnando le principali
caratteristiche della sua arte.
Abbandonate col tempo le pur
utili sollecitazioni esterne e muovendosi arditamente su percorsi più
liberi ed a lui più congeniali si assiste, nell’ultimo periodo,
alla produzione di opere particolari, nelle quali si legge il suo
passato, ma che si risolvono in un’autonomia piena e con uno stile
sicuramente inconfondibile.
La sua capacità di esprimersi
utilizzando le più particolari tecniche pittoriche fu utilizzata
anche su quelle tematiche di valenza politica e civile che animavano
il dibattito dei primi Anni ’60. La guerra fredda e il timore di un
conflitto nucleare rappresentarono alcuni dei fronti in cui Rafo
impegnò direttamente il suo pensiero e la sua arte.
La Mostra Antinucleare che si
terrà a Firenze nel 1961 vedrà la sua partecipazione con un quadro
di notevoli dimensioni dal titolo “La fine”. Questo dipinto, oggi
esposto nella Sala Consiliare del Comune di Signa, rappresenta due
mani scheletrite, su di uno sfondo verde, irreale, che si aggrappano
ad un reticolato di filo spinato, quasi a testimoniare, con quella
citazione da campo di sterminio nazista, che quanto era accaduto
poteva nuovamente accadere nella prospettiva di un nuovo olocausto
universale. Portandosi dietro la foto di questo dipinto, Rafo
partecipò, giovedì 21 dicembre 1961, ad una trasmissione televisiva
dal titolo “Arti e Scienze”.
I grandi quadri su iuta, le
ragnatele, le immagini che vanno ben oltre l’ambiente ed il
contesto tipico dei primi anni sessanta, costituiscono elementi
originali di forte tensione artistica estremamente coinvolgenti anche
per chi li guarda.
Sempre Umberto Baldini
scriverà su “La Nazione” del 26 giugno 1961:
“ …
i risultati appaiono
veramente notevoli specie se confrontati con l’ultima sua attività:
c’è più libertà, più piglio, più incisività nel suo
linguaggio che va risolvendo in emozioni di larga cromia il recente
cristallizzarsi di una quasi geometrica elaborazione …”
Nella bellezza delle sue opere
e nel raggiungimento di un obiettivo tanto desiderato la finale paura
di perdere quella tensione artistica che lo aveva spinto verso simili
risultati: confidava al fratello, nei mesi precedenti la sua
prematura scomparsa, che ormai si sentiva assuefatto alla vita ed
esprimeva il timore di non riuscire più ad evolvere la sua arte
verso nuove e dinamiche direzioni.